SANREMO 2019: EX-OTAGO, Genova e l’amore
“Genova, mia cara, non ti preoccupare, tra le mille cose che ho da fare sono sicuro che un giorno troverò il tempo per tornare”. E sarò un cretino ma questa frase ogni volta mi scava dentro come poche cose. È una frase che evoca appartenenza, radici, legami.
Uno pensa alla propria città, naturalmente. Ed è quello che facevo anche io. Ma da quando sono stato per la prima volta a Genova penso anch’io a Genova e a tutto quello che quella città è in grado di provocarmi.
Era il 2010, quella canzone si chiamava “Costa Rica” ed era contenuta in “Mezze Stagioni”. Un disco della Madonna per gli indie addicted come me. Di quel disco amo anche, con tutto me stesso, “Ricomincio da tre”, “Figli degli Hamburger” e soprattutto “Dentro la foresta” che vorrei questa pagina bianca fosse una storia Instagram per piazzarci da qualche parte in minuscolo il titolo della canzone e farla partire quando, dopo quella serie lunghissima di “Nella mia nella tua nella nostra città”, si sentono le bacchette sui piatti della batteria che ogni volta parte il mimo compulsivo e mi sento Charlie Watts.
Nel 2016, poi, tornano con “Marassi” che trovatemi una canzone brutta, solo una, io non ce la faccio proprio. Mentre scrivo, lo riascolto su Spotify disturbato, lo ammetto, dagli spot di Fedez che entra a gamba tesa per parlarmi del suo disco. Anche in “Marassi” Genova è la protagonista come lo è in “Corochinato”, il nuovo album, di cui mi hanno parlato in questa breve chiacchierata che avrei voluto durasse un giorno intero per chiedere loro, ancora e ancora, come si può sopravvivere al forte senso di appartenenza a un luogo. Per lo meno, se loro hanno imparato a farlo.
Parto così: Genova.
“Genova è una bellissima città di mare che si trova a nord dell’Italia, colpita frequentemente da alcune disgrazie ma noi siamo qui per parlare dell’altra Genova, non quella dei telegiornali ma quella che splende, che brilla o almeno prova a brillare, quella che scrive canzoni, che beve Corochinato, che mangia i pansotti in salsa di noci. Se possiamo dirti qualcosa di Genova, ti diciamo questo. Siamo ovviamente molto affranti per ciò che è accaduto, increduli e anche un po’ incazzati ma noi vogliamo portare tutto quello che accade intorno alle disgrazie e ce ne sono di bellissime e altrettanto importanti, anzi, forse anche più importanti”.
Soffro di spiccato senso di appartenenza ai luoghi della mia vita. E un po’ anche voi. Come si guarisce?
“Non si deve guarire, anzi, ben venga. È una ‘benettia’ non una malattia. Ben venga ammalarsi e amare i propri luoghi come i propri i genitori, come tutto quello che ti ritrovi, non chiedi e poi riscopri. Certo, non deve essere motivo di chiusura: l’amore per i propri posti non può sfociare in una sorta di campana di vetro dalla quale non esce e nella quale non può entrare nulla. Deve essere qualcosa che si rinnova, che cambia ogni giorno. E poi, soprattutto in un mondo dove c’è un’innovazione spintissima verso la globalizzazione, essere arrancati o ancorati a un territorio preciso e urlarne le sue caratteristiche è un atto anche politico e sovversivo”.
Un aggettivo per i vostri dischi. Tra tutti, soprattutto “Mezze Stagioni” e “Marassi”, oltre che “Corochinato”.
“Sicuramente ‘bellissimi’. ‘Capolavori’ è un sostantivo, vero? (ridono)
Allora, sì: sinceri e visionari.
Me ne dite uno per disco?
“Corochinato” è ‘paciugo’. ‘Paciugo’ ha un doppio significato, vuol dire ‘disastro’ (e non è questo il caso) e poi vuol dire anche ‘miscuglio’. Era anche un papabile titolo del disco ma poi lo abbiamo cambiato. Come anche ‘Macedonia’ Insomma, il concept è questo. Poi, per “Marassi”: contemporaneo. Per “Mezze stagioni”: pioneristico”.
“Corochinato”: come è nato, cosa vuol dire, cosa racconta.
“‘Corochinato’ è un aperitivo antichissimo genovese che mischia il vino bianco e delle spezie. È molto antico e raro e costa anche molto poco, 1 euro e mezzo al massimo nei posti cari. E soprattutto è una bevanda che si beve in un momento bellissimo della giornata e cioè quando finisci di lavorare prima di tornare a casa per fare qualsiasi altra cosa. E siccome dare il nome a un disco è sempre una tragedia, abbiamo voluto fare questa cosa qui: dare il nome di una cosa che già esiste, che si può toccare, che si può bere e che meglio di qualsiasi altra cosa riesce a raccontare il nostro modo di stare dentro la musica e dentro il mondo. ‘Corochinato’ non è quindi un invito all’alcolismo ma un simbolo legato al proprio territorio come, ad esempio, Torino che ha il ‘San Simone’”.
“Solo una canzone”: come è nata, cosa vuol dire, cosa racconta. Avevate in mente due persone ben precise?
“Parla di un amore lungo, di amori che stiamo vivendo tutti noi, chi più chi meno. Io, ad esempio, ho pensato al rapporto con la mia compagna. Chi la ascolterà, calerà la canzone nella sua vita. Parla del ‘periodo di mezzo’ di una relazione d’amore, che può durare poco o può essere eterno, in cui non è semplice stare dentro a una storia perché conosci ogni millimetro della pelle della tua compagna e hai perso un po’ il senso di ‘scoperta’. Ed è un periodo importante e fondamentale e se si ha un po’ di coraggio si può superare aggiungendo altri sentimenti, con la voglia di fare cose assieme, di fare progetti, di escogitare il modo per innamorarsi ancora della stessa persona”.
I vostri videoclip hanno subito un’evoluzione non indifferente. Quello di “Questa notte” è secondo me uno dei migliori in circolazione…
“Noi lavoriamo sempre in prima persona nei nostri videoclip, ci diverte e pensiamo che anche il videoclip faccia parte di un progetto musicale. Non sono solo importanti le note che escono dalle casse ma anche le facce che si vedono, come si vedono e cosa fanno. Il filone dei videoclip di ‘Marassi’ lo abbiamo fatto con una regista che è Serena Gargani. ‘Questa notte’ è stato fatto da Cosimo Bruzzese che aveva già fatto il video di ‘Figli degli Hamburger’. L’ultimo video, che uscirà stanotte, è stato fatto da Paolo Santamaria. L’impronta di questo videoclip è molto cinematografica perché ogni regista ha la sua chiave di lettura però noi ci siamo sempre dentro”.
Qualche settimana fa avete pubblicato un post su Facebook in cui rispondevate alle critiche di vostri fan o presunti tali che si sono risentiti della vostra partecipazione a Sanremo. Siete Lo Stato Sociale di quest’anno. Cosa vi sentire di dire sull’argomento?
“Noi siamo gente che canta per tutti, non ama né gli schemi, né le etichette, né i confini. Ogni canzone dovrebbe fluttuare nell’aria liberamente e arrivare a chiunque, anche per caso. Noi ci sentiamo di cantare ovunque e Sanremo non ci pare un posto peggiore di altri. Uno dei sentimenti che più ci sta sui coglioni è l’essere snob. Oggi non partecipare a Sanremo sarebbe probabilmente snob perché partecipiamo a una generazione di autori e di musicisti che è passata dai baretti ai palazzetti ed è inutile nasconderlo, è inutile dire ‘sono gli altri che non capiscono’, si tratta di un alibi. Fa paura provare a essere capiti da tutti ma se accetti di fare musica italiana bisogna avere anche il coraggio di dire: ‘Tieni, la canzone è tua, fanne un po’ ciò che vuoi’. Le etichette ci stanno sull’anima e lo abbiamo capito. Ma oramai cos’è l’indie, cos’è il mainstream? È tutto un grande miscuglio. Noi siamo interpreti di noi stessi: Mauri scrive i testi, insieme scriviamo la musica, lo facciamo da 17 anni e oggi saliremo su un palco che per noi è un amplificatore”.