Intervista: MARCO CASTELLO – Il bello del bello mi annoia

Intervista: MARCO CASTELLO – Il bello del bello mi annoia

Quando gli hanno detto “Se non ti piace niente, prova a farlo tu”, Marco Castello ci ha provato sul serio.  E così ha scritto “Porsi”, il brano dedicato all’undicenne che è stato, e che non vedeva l’ora che finisse la scuola per ascoltare gli Aretuska.

Marco Castello è  il vicino di banco che tutti noi avremmo voluto. Ama Harry Potter, non sa resistere agli alpaca e non vedeva l’ora di liberarsi della scuola. Persino Erlend Øye dei Kings of Convenience è stato conquistato dalla sua simpatia… e dalla sua parmigiana.

Ciao Marco, facciamo le presentazioni?

Ciao! Sono nato nel 1993 a Siracusa, e qui ho vissuto fino a quando mi sono trasferito a Milano per studiare. Mi è sempre piaciuto realizzare progetti nel senso creativo del termine, lasciare segni, dare forma a cose che mi facessero sentire soddisfatto. Non sono un gran comunicatore verbale, per questo sono sempre stato affascinato da altre vie. A casa suonavano un po’ tutti e mi è sempre piaciuto ascoltare e osservare, percependo le reazioni del mio corpo.

Sei un polistrumentista. C’è uno strumento che ti piace suonare di più, o con cui hai un legame più forte?

Amo la tromba, è l’unico strumento che ho scelto di studiare e in cui mi sono laureato a stento. Una relazione molto travagliata e sofferta a dire la verità, finché ho praticamente mollato. Quindi mi correggo: amo ascoltare la tromba, e manco tutta. Suonarla mi ha dato più vergogne che delizie. La batteria è il mio strumento preferito, con cui volo e provo benessere fisico. Forse prima o poi incomincerò a studiarla.

Com’è che sei diventato cantautore?  Raccontaci la genesi di Marco Castello musicista.

A casa ci sono sempre stati vari giocattoli musicali: percussioni africane, i bonghetti di mio padre che è stato un glorioso batterista, le chitarre di mia madre, mia sorella e mio fratello maggiori, un pianoforte elettrico pieno di pulsanti su cui si potevano inserire i floppy disk con le basi. Quindi è partito tutto da un tum tum cha dei bonghetti e da “Imagine” al piano, ascoltavo e provavo a imitare. Finchè a 11 anni, sentendo gli Aretuska, ho detto ai miei che volevo studiare la tromba, e mi hanno portato alla banda comunale. Nel frattempo mi sono fatto spiegare i primi accordi alla chitarra da mio fratello. Dato che la chitarra non comportava particolare impegno fisico nel suonarla, nè volumi molesti, nè camurrìe (“fastidi”, “noie”, in dialetto siciliano, NDR) a essere trasportata in giro, è diventato lo strumento che ho suonato e suono più di tutti, e che uso anche per scrivere. La batteria invece è stata una passione impossibile: ho sempre avuto ‘sta nevrosi di battere le mani ovunque, perennemente. L’ho sempre desiderata ardentemente ma era impossibile averla a casa, quindi immaginavo e facevo da me. Posso dire senza modestia di aver sviluppato un “clap su coscia” che non ha eguali.

E poi?

Poi è partito il periodo del liceo, della sala prove Arsonica dove andavamo a provare: un ritrovo di ragazzi pazzi, era bellissimo. Senza quel posto non avrei mai suonato sul serio. Ho cominciato a scrivere pezzi reggae in inglese, anzi, azzardavo un patois parecchio imbarazzante. Dopo il diploma allo scientifico sono finito a Milano alla Civica di Jazz per studiare tromba e anche lì ho sempre buttato giù cose sulla chitarra. Dopo la laurea ero parecchio demoralizzato per quanto facessi schifo, e sono tornato giù a lavorare mentre cercavo di capire che fare. Dato che non mi piaceva quasi nulla della musica italiana e litigavo con la gente che finiva sempre per dirmi “allora fallo tu”, ho provato a fare io. Avevo sempre scritto ma mai cantato. O meglio: ho sempre cantato ma solo per i fatti miei. Quindi ho scritto un pezzo in italiano per la prima volta a settembre 2017, senza particolari rimandi stilistici a un genere ben preciso. E da lì ne sono arrivati altri.

Il tuo singolo si chiama “Porsi”. Tu come ti poni, in generale? Con te stesso, con gli altri e con la musica.

Faccio di tutto per pormi al meglio ma non ci riesco quasi mai. Mi chiedo sempre se sto dicendo troppo, o troppo poco, o con troppa schiettezza, o con troppe metafore. Tipo: sono piuttosto sicuro che in questo momento mi sto dilungando. E con gli altri mi pongo esattamente come con me stesso: con un esagerato senso critico. Spesso, prima di apprezzare una cosa, devo arrivare ad accettarla e basta, e faccio fatica a non rompere l’entusiasmo di chi si gasa più facilmente.

E’ un pezzo autobiografico? Di cosa parla? 

“Porsi” è autobiografico e parla di quello che vedevo attorno a me da undicenne, tutte le cose che poi sarebbero state le stesse dei grandi, ma viste ancora con gli occhi giganti di bambino. Alle superiori hai già capito troppe cose, io invece mi riferisco a quella sicurezza ingenua che si possiede prima di comprendere che forse non sei in grado, non sei chi vorresti o non riuscirai in tutto ciò che desideri.

Ti va di condividere con noi qualche ricordo di quando andavi a scuola? Com’era Marco Castello alle superiori?

Ero un fricchettone con la chefia e le Etnies, organizzavo i cortei e il sindacato studentesco, facevo il rappresentante e parlavo alle masse, era divertentissimo. Poi ho capito che l’amore spassionato per la contestazione e il troppo desiderio romantico di sentirsi necessariamente parte di qualcosa per star bene con se stessi erano più forti della voglia di verità o di giustizia che credevo di perseguire. Così negli ultimi due anni mi sono allontanato da quel mondo di tifoserie.  Ecco, propriamente di scuola non so proprio che dirti, ero intelligente ma la mia attenzione era da tutt’altra parte.

A proposito di scuola, di cui parli nel tuo singolo: adesso si studia a distanza, per via dell’attuale situazione dovuta al coronvirus. Come avresti affrontato tu una situazione del genere, magari sapere di dover fare gli esami di maturità in modalità agevolata e…on line?

 Io avrei pagato per fare lezione così, non scherzo. Ero e sono un cretino e non ho mai avuto particolare interesse per la scuola. Magari solo  per  tutto quello che c’era attorno sì, ma per le lezioni assolutamente no, avevo cose molto più stimolanti e importanti a cui pensare. Troppo spesso mi rendevo conto che non volevo avere nulla a che fare con la frustrazione e le patologie psichiche di quasi tutti i prof che incontravo. L’ho vissuta con molta pesantezza e riuscire a uscirne è stata una delle cose più belle che mi sia capitata, inoltre avevo sicuramente scelto l’indirizzo sbagliato. Viverlo da casa avrebbe alleggerito di parecchio la paranoia, ma avrebbe anche tolto tutto il bello, tipo stare fra i compagni. Sono anche piuttosto sicuro che l’efficacia dell’apprendimento sarebbe di parecchio diminuita nelle modalità poco rodate di questa situazione di emergenza. Insomma credo che sarei stato contrario: la scuola può essere traumatica ma tutto sommato non rinuncerei alle cose belle che ci sono state fra le campanelle. Da casa non esisterebbero.

Il video di “Porsi” è geniale. Come vi è venuto in mente di raccontarla così, con quei personaggi e con i lama?

L’idea del video è di Zavvo Nicolosi di Ground’s Oranges. Ho sempre apprezzato moltissimo i loro video quindi sono stato felicissimo di esordire lavorando con loro, gli ho dato carta bianca. Eravamo d’accordo su qualcosa di surreale e cretino. Ha funzionato alla grande. Sono alpaca però, non lama: c’è un allevamento sull’Etna, chi se lo aspettava. Perfetto per le nostre intenzioni oniriche. Chi direbbe no agli alpaca?

Ci sono delle citazioni cinematografiche vero? Io ci ho visto parecchio Wes Anderson nei colori e in alcune inquadrature.

Non ne ho idea, io lo guardo e penso semplicemente “Ground’s Oranges”, il cui stile mi sembra prettamente loro. Posso dire però che il teletrasporto del Papa che non può andare oltre nel suo percorso con la protagonista è contemporaneamente un riferimento al Virgilio dantesco e a Goku. Per i tecnicismi non ne ho idea, dovreste chiedere ai ragazzi, che posso solo ringraziare.

Il cameo di Erlend Øye è uno dei momenti più esilaranti. Come vi siete conosciuti e come avete deciso di collaborare?

Erlend vive a Siracusa da un bel po’ ormai, io ho ascoltato da piccolo i Kings of Convenience e l’ho sempre guardato passeggiare da lontano. Una volta ho azzardato a chiedergli un autografo e ho capito che non doveva piacergli molto dare conto a sconosciuti. Però ero amico dei suoi amici a Siracusa, quindi prima di andare a Milano sono finito nel video de “La Prima Estate”. Quattro anni dopo, quando sono tornato, capitava spesso che con altri amici ci incontrassimo suonando nelle piazzette o nelle terrazze di Ortigia, il centro storico. Per un paio di anni ci fu una vera e propria ondata di gente che arrivava dai posti più disparati, musicisti e non. Qualche volta veniva pure Erlend, che mi ha rivolto la parola per la prima volta dopo aver assaggiato una mia parmigiana. Quando i ragazzi con cui avremmo fatto La Comitiva mi hanno detto che c’era la possibilità di andarlo a trovare in Sudamerica, mi ci sono messo in mezzo senza farmelo chiedere. Da lì siamo stati in tour per il mondo, una cosa pazzesca perché inizialmente eravamo andati solo a fargli compagnia.

Ecco appunto, com’è stato partecipare al progetto La Comitiva?

 Con La Comitiva siamo fratelli, c’è un bellissimo equilibrio nonostante le moltissime differenze stilistiche e umane, ma penso sia proprio questo il bello. Ognuno ci mette un pezzettino della sua peculiarità.

Il tuo album uscirà dopo l’estate, e speriamo che la sua uscita combaci con il ritorno ad una pseudo normalità. Ci anticipi qualcosa?

Questo album è bellissimo, non dovete perdervelo assolutamente. Mi piace raccontare storie e ce ne sono tante, mi piace ballare e a tratti si balla, mi piace chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare e a tratti c’è anche questo. Mi fa schifo la poetica dei testi italiani che usano gli stessi linguaggi da settant’anni, e hanno rotto il cazzo parlando di cose che sono chiaramente belle per tutti, bravi! A me piace cercare la poesia nel grottesco, il bello dal bello mi annoia. Tutto questo azzardando delle progressioni armoniche superate in quasi tutto il globo ma incredibilmente inedite in Italia, quindi spero di essere ricordato come il pioniere italiano delle dominanti. Sto scherzandooooooo dai, se state attenti ci troverete un sacco di influenze diverse. Posso essere il pioniere delle parolacce però!

E’ un limite per gli artisti pubblicare dischi e singoli in questo momento storico particolare, eppure in molti hanno scelto di non posticipare le uscite. Pensi che la musica ci sia d’aiuto e ci stia salvando un po’?

 L’unica cosa che possiamo fare è dare sfogo ai talenti e anche al sano ego, cercando di alleggerire il morale altrui. Penso sia un’enorme fortuna trovarsi in questa situazione in questo momento: non siamo mai veramente soli. Anzi, sono sempre più terrorizzato dal fatto che essere perennemente collegato virtualmente mi faccia perdere la voglia dei contatti reali. Per me a dire il vero non è cambiato nulla: stare in casa è qualcosa di spettacolare e in questo momento sono libero di non fare proprio niente, senza l’ansia di perdermi qualcosa là fuori. Perfetto. Sono saltati tutti i concerti fissati però, quindi a breve dovrò trovarmi un lavoro brutto, ma necessario. Non comprendo benissimo l’industria musicale oltre il suonare, quindi so solo che tutto è fermo e non possiamo farci nulla. La scelta sta nel rischiare di uscire comunque e passare inosservati per colpa del blocco generale, o non uscire e perdersi un ottimo momento in cui nessuno ha di meglio da fare che ascoltare te. Sono entrambi rischi o occasioni, io non lo so.

Consigli per la quarantena: un film, una serie tv, un disco e un libro.

 Non mi metto spesso davanti a schermi per guardare cose, sono del tutto e gravemente dipendente dallo scroll da anni. Ho aspettato ardentemente i lunedì e martedì sera di queste quattro settimane di quarantena per rivedere per la centesima volta Harry Potter, le storie mi piacciono sempre, penso siano terapeutiche. Consiglio “Catarsi Aiwa Maxibon” di Pufuleti che spacca, è un lampo fulgente nella palude di rappusi che si autofellatiano da trent’anni e che ora si lamentano della trap: Pufuleti è stata una bellissima sveglia, un’epifania. Leggete “Il serpente di stelle” di Jean Giono. Un film che secondo me è bellissimo e ho scoperto da poco è “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher. Le serie richiedono troppo impegno, o mi annoiano o ci resto male quando finiscono. Durante l’ultimo tour però mi sono visto tutto “Naruto Shippuden” in un mese (lo so che è il più sputtanato degli anime, perdonatemi sono bestia in materia), ci sono rimasto sotto e mi ha fatto piangere due volte. Le storie, e poi le musiche, e poi le animazioni… Madò, se vivi con passione e sei così fallito da avere abbastanza tempo da accollarti 500 puntate, non puoi perderti Naruto Shippuden (sottotitolato, perché doppiato allora meglio che ti guardi “La casa di papel”).

 

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