Intervista: PIOTTA i miei ricordi in formato VHS
“Maledetti quegli anni 90” è il nuovo singolo del rapper romano Piotta.
Non lasciatevi ingannare dal titolo: se vi aspettate il solito revival malinconico e scanzonato pieno di luoghi comuni, sappiate che non troverete niente di tutto ciò. Nel suo nuovo singolo, Piotta mette in musica il ricordo più dolce, quello per il padre recentemente scomparso, mescolato alle emozioni del presente.
Facciamo finta di essere davanti all’ingresso di casa tua, all’Interno 7. Raccontaci qualcosa del Tommaso di allora…
Ci troveremmo in una zona di Roma moderna di metà anni Settanta, poco quartiere e molto dormitorio di giovani coppie. Una Roma nota per essere quella “al di là del ponte”, una sorta di ponte di Brooklyn in salsa nostrana. Case belle, spaziose, ma un quartiere senza l’anima dei quartieri famosi tipici di Roma. Questo è il motivo per cui sono sempre stato molto legato alla casa ma poco alla zona, alla quale preferivo di gran lunga quella di mia nonna dove sono cresciuto, tra scuole e parchi, quel Trieste Nomentano pieno di verde e di compagni di banco, di calcio per strada e di musica. Quel Tommaso sono tanti Tommaso, essendo arrivato in quella casa ad un anno ed essendoci rimasto stabilmente fino al 1999. Dall’infanzia all’età adulta, passando per tutte le fasi inquiete della mia adolescenza.
….e del disco, che si chiama proprio così, “Interno 7”. Che novità troviamo in questo nono album, rispetto ai tuoi esordi al tuo percorso come Piotta?
Trovate un album molto maturo, per suoni e contenuti, per arrangiamenti e parte letteraria. Un disco compatto, con uno stile preciso. Un lavoro che mette insieme il rap con il cantautorato, la chitarra acustica con la 808, il pianoforte con cui nascono i brani con i breakbeat. Un disco molto coraggioso, di spessore, sospeso nel tempo, ma senza rinunciare per questo ad un sound attuale, a volte percorrendolo a volte lanciando un nuovo input.
Con questo disco, uscito a Settembre, sei tornato alle origini, ripescando nel cassetto dei ricordi della tua vita. Come le musicassette, è diviso in lato A e lato B. Eppure hai scelto di diffonderlo attraverso le piattaforme digitali, e poi fisicamente nei negozi. Come mai questa scelta …in totale linea coi tempi?
Perché le cassette non esistono più, forse ne potresti vendere 50. Il mezzo non ha alcuna importanza, è cambiato e cambierà, dal papiro alla carta, dalla parte di una grotta alla tela, dalla cassetta allo streaming, mezzi inventati e da inventarsi. Quello che conta è la vita che c’è dentro e le emozioni e l’empatia che suscitano.
Sei una persona malinconica?
Non particolarmente. È inevitabile che crescendo c’è tanto da vivere anche molto di già vissuto. Siccome è un vissuto intenso e ricco d’amore, omaggio questo amore e questa amicizia. Dai miei genitori agli amici, da Primo a Giaime, da Roberto a Crash Kid.
Domanda di rito: ti senti a tuo agio nell’attuale scena rap? Cosa ne pensi di questa nuova ondata di giovani trapper?
Io mi sento a mio agio nella vita e nella musica, poco mi interessa quello che fanno gli altri. Oggi come ieri. I nomi sono tanti? Ben vengano! È una vita che dico che la musica e l’Hip-Hop non sono uno ma mille, ognuno con il suo stile e il suo bagaglio. Ogni età ha i suoi testi e il suo vissuto, l’importante è essere veri e scevri da becere logiche commerciali in salsa reggaeton.
Che rapporto hai con i social?
Discreto. So che si può vivere benissimo senza, avendolo fatto per tanti anni quando non c’erano, ma sono divertenti, utili, non li demonizzo insomma. Ogni cosa è bene e ogni cosa è anche male, l’importante è non diventarne dipendenti, ma non solo dei social. Ultimamente preferisco Instagram, c’è meno odio e più proposta. Almeno fino ad ora.
Stai per portare il tuo disco in un tour. I tuoi saranno spettacoli, piuttosto che concerti. Che sensazione ti dà ricantare i pezzi degli esordi?
La stessa di cantare quelli nuovi, mi emozionano entrambi. I pezzi old school riarrangiati con una band stratosferica, i classiconi rap, le hit, le jam, gli ultimi singoli. Racconto con la musica un’avventura cominciata sui banchi di scuola, e siamo ancora qua, per dirla come Vasco.
Il tuo ultimo singolo si chiama “Maledetti quegli anni 90”. In questi tempi in cui si tirano fuori gli oggetti del passato, in TV torna Beverly Hills e Nokia rimette sul mercato i suoi cellulari iconici – tu hai proposto una canzone emozionante e delicata, dal testo profondo, tutt’altro che piena di quella scanzonata allegria associata al revival. Raccontaci com’è nata.
Premetto che io odio il revival. Il revival lo fa, secondo me, chi non ha più niente da dire e chi vuole fare cassa. Io di cose da dire ne ho parecchie, e fare cassa non mi è mai interessato. Ho detto no a tantissime cose anche molto ben remunerate, la mia priorità è l’arte, la creatività, la musica per me è un qualcosa di sacro, un linguaggio che ci unisce tutti ancora prima della parola. È cuore, pancia, stomaco, gambe, sudore, lacrime, sangue, gioia, sfogo, catarsi.
“…gli avrei voluto si mettono in fila”. C’è qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto?
Credo di aver fatto tutto fin qui. Vorrei saper volare, ma penso di non essere l’unico. Ci arriveremo in giorno. Battute a parte tutto ok, ho il mio studio, i miei spazi, la mia label, la mia totale libertà creativa. Cosa posso chiedere di più?
Alla fine del video del singolo, si vedono due figure che non sono gli attori. Siete tu e tuo padre? Il pezzo è dedicato proprio a lui, è una canzone d’amore…
Si, siamo io e mio padre in un vecchio VHS di famiglia ritrovato in questo ultimo trasloco di questo Interno 7. Un viaggio interiore, un viaggio profondo, un disco d’amore nel senso più assoluto del termine. E di amore ce n’è davvero bisogno in questi tempi di odio.