JOE JACKSON
Milano, 22 marzo 2019
E’ grazie a Joe Jackson se amo Milano.
Una mattina d’autunno di qualche anno fa passeggiavo tranquilla per le vie del centro. Avevo lasciato Firenze da qualche settimana, la mia missione quotidiana consisteva nella geolocalizzazione di ragioni abbastanza valide per convincermi di aver fatto un salto di qualità (ovvero: andare alla ricerca di posti poco mainstream, chicche del tipo “solo a Milano”) Non ne avevo trovate molte fino al giorno in cui intravidi, tra un bar affollato di turisti e un chioschetto di souvenir, una bancarella di dischi. Mi avvicinai senza pensarci due volte: ero finalmente al riparo dal trambusto. Cure, Depeche Mode, Siouxie and The Banshees, Joy Division: non mi sembrava vero. Scorrevo le dita tra gli LP in fila, li tiravo fuori e li contemplavo, toccavo le copertine lisce. “Questo lo conosci?” mi disse il gentile signore dietro il bancone. Tirò fuori un disco dalla copertina curiosa: c’erano solo un paio di scarpe bianche, a punta. “No”, dissi. “Allora te lo faccio sentire”. Era “Look Sharp” di Joe Jackson.
Non comprai il vinile, quel giorno, ma feci la conoscenza di un signore gentile e appassionato, e di uno dei personaggi più geniali della musica mondiale, colui che durante le mie scorribande alla scoperta della città non mi avrebbe lasciato nemmeno per un secondo. “Look Sharp” suonò nelle mie orecchie per tutti i primi mesi passati a Milano, e Milano grazie a Joe Jackson divenne un posto migliore.
E’ per questo che venerdì 22 marzo non potevo mancare al concerto milanese del “Four Decade Tour” di Joe Jackson al Teatro dal Verme: quarant’anni di carriera spalmati in due ore di show incredibili, ventuno brani tratti dai cinque album più significativi di ogni decade, uno per ogni momento musicale. Joe Jackson, infatti, non si è privato di niente nel corso della sua carriera: ha suonato rock, pop, soul, blues, jazz.
L’alchimia prende letteralmente forma con una canzone che non poteva essere un incipit migliore, e si chiama “Alchemy”, guarda un po’: si compone piano, strato per strato, prendendosi gioco della nostra impazienza, con l’ingresso del batterista – un animale da palcoscenico, un vorace predatore musicale – Doug Yowell, a cui si aggiungono il bassista Graham Maby e il chitarrista Teddy Kumpel. E poi arriva Joe Jackson, finalmente, elegantissimo, tra lo scrosciare di applausi prende posto dietro la sua tastiera e non la lascerà più per due ore.
La scaletta è perfetta: si parte, come nel migliore dei racconti, dagli inizi, quelli del 1979, di “One More Time” e “Is she really going out with him”. Scopro che il pubblico di Joe Jackson è un po’ ingessato, ma io faccio fatica a star ferma sulla mia poltrona. Di fianco ho due signori di una certa età che non si muovono, dietro ho un gruppetto di comunissimi mortali travestiti da esperti che non riescono a trattenersi dal fare commenti ovvi. Eppure su una cosa siamo d’accordo: il basso è altissimo e prevale sugli altri suoni. Peccato. Lo penso nel momento esatto in cui uno del gruppo decide di farlo sapere a tutti. Mi bastano un paio di sguardi di traverso per zittirli per tutto il resto dell’esibizione.
I pezzi del passato si alternano a quelli dell’ultimo disco “Fool”, un altro piccolo gioiello di questo signore. Ecco allora “Big Black Cloud” e “Fabulosly Absolute” prima che arrivi “Real Man”. E siamo già negli anni Novanta, con due pezzi tratti da “Laughter and Lust”, “Stranger than fiction” e la magica “Drowning”. Le sorprese arrivano quasi a metà concerto, con una “Rain” che non ci fa affatto sentire la mancanza della versione originale dei Beatles.
Eppure, con meraviglia, mi accorgo che il punto più alto di questo show non arriverà con “Steppin’ Out”, che comunque attendo impazientemente e che Joe Jackson suona con la drum machine originale del ‘79, una Korg Rhythm 55 KR. Il momento migliore, a mio avviso, giunge sei pezzi prima, con “Fool”, title track dell’ultimo album. Un pezzo ricco, pieno di sonorità orientali, dall’andamento travolgente.
Segue un medley riassuntivo capitanato da una bellissima versione di “King of the World” degli Steely Dan, e si chiude con un bis acclamatissimo: comincia con “Steppin’ Out”, appunto, e finisce come abbiamo cominciato, con “Alchemy”. Il cerchio si chiude, i componenti della band vanno via uno ad uno, la musica si spegne, ma non l’entusiasmo. Sono in piedi, applaudo con forza, sono grata a quest’uomo, amo Milano, amo Joe Jackson, amo essere qui, ora, in questo momento.
Torno a casa e Milano è bellissima.