Live Report: FRANCESCO BIANCONI a Milano
Il cantante, l’interprete, l’autore, il narratore. Francesco Bianconi è tutto questo in un unico artista. Al Castello Sforzesco di Milano ha cantato i brani più belli del suo “Forever in Technicolor”, regalandoci anche qualche sorpresa.
Fa freddo. Siamo in pieno luglio, a Milano. E fa freddo. Strano. Anche il fatto che sto uscendo di casa per andare ad un concerto è strano. Così come è strano prendere posto nello stesso identico luogo in cui l’estate precedente mi ero concessa gli unici due concerti dell’anno, decisamente pochi rispetto alla solita indigestione musicale. Scoprirò presto che sarà strano tutto, in questa serata. L’acqua frizzante in lattina, il ponfo sulla testa per il pizzico di zanzara che somiglia ad un bernoccolo, i calzini arrotolati sotto i piedi nelle All Star, ma mi sentirò strana soprattutto io, per due ore avvinghiata nel mio giubbottino di jeans, immobile, rigida, composta, incredula. Perché la musica dal vivo è diventata un evento anomalo. Ci siamo disabituati a condividere la musica con centinaia di persone, e rompere il ghiaccio con la voce di Francesco Bianconi è un privilegio inaspettato che intendo assaporare fino all’ultima nota emessa.
Mentre il sole cala lievemente e piano per lasciar spazio alle luci del Castello Sforzesco suona Ettore Bianconi, fratello di Francesco, mente e mani del progetto :absent., già componente dei Baustelle. Per una buona mezz’ora siamo in viaggio oltre il tempo e lo spazio, basta chiudere gli occhi per ritrovarsi altrove. Poi arriva il buio, e allora irrompe Francesco con la sua band – ho studiato, sono tutti bravissimi musicisti – ed è come una mano che ti si posa sulla spalla per riportarti al qui e ora. Per ascoltare Bianconi devi esserci, non puoi vagare, non puoi perderti. E’ musica di presenza la sua, non di evasione. E’ musica di comprensione, non di interpretazione. E’ suono vivo, solido, fermo, non evocato.
Il sipario si spalanca con “Forever”, title track strumentale che chiude il primo disco solista dell’artista uscito nel 2020 e riproposto nella versione “Forever in Technicolor” con 6 brani inediti. Ne “Il bene” incontriamo finalmente la voce profonda che batte, scava, si apre verso il basso come un abisso sin dal primo momento. In “Go” si capisce quanto piano e violino saranno protagonisti dell’intera performance, seguono “Il Mondo Nuovo” e la spettacolare “Abisso”, uno dei pezzi più belli dell’album che dal vivo acquista ancora più intensità con la lievità del violino di Alessandro Trabace. Bianconi introduce “Zuma Beach” col racconto tenero e ironico del tentato bagno nell’Oceano. “The Strenght” è cantata nella versione italiana “La Forza”, ma è con “La Cometa di Halley” di Irene Grandi che ci ricordiamo che Bianconi non è solo un grandissimo interprete ma soprattutto un paroliere che ha scritto pezzi indimenticabili come questo. E la cover di “L’odore delle rose” dei Diaframma conferma che il cantautore è in grado di fare suo qualsiasi brano ammantandolo di una delicatezza e intensità che non fanno rimpiangere la versione originale.
“Certi uomini” e “Faika” chiudono la prima parte del concerto, poi la band rientra quasi subito per salutare il pubblico con gli ultimi quattro brani, tutte cover: la bellissima “Ti ricordi quei giorni” di Guccini, che Bianconi introduce con tenerezza ricordando i concerti del grande cantautore, visti da bambino assieme al padre. Ma è “Playa” il momento più tenero e commovente dell’intero concerto, quando Francesco parla della figlia che tentando di istruirlo sui tormentoni estivi, cattura finalmente la sua attenzione con la hit di Baby K, riproposta in chiave “troppo lenta”, a detta della bimba. E questo misto di ironia e dolcezza è difficile da lasciare, riascolterei Playa ancora e ancora dopo averla rifuggita ogni volta possibile, ma poi arriva la conclusione perfetta, “Bruci La Città”, famoso brano di Irene Grandi da lui scritto.
Ed eccola, finalmente, l’unica cosa “non strana” dell’intera serata. La sensazione familiare di fine concerto, l’appagamento, la soddisfazione, la pace, la mente che ripercorre la scaletta, la bocca che continua a cantare tra sé e sé. Tra sè e l’aria, tra l’aria e il mondo prima della pandemia.
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