Live Report – THE SISTERS OF MERCY: un sorprendente qui e ora
In sala il colore dominate è il nero, in una sorta di obbligatorio “dress code”.
Tra il pubblico molti tardo 50enni e 60enni, ovvero coloro che anagraficamente hanno vissuto in diretta il periodo di fulgore dei The Sisters Of Mercy e di tutta l’epopea del dark rock anni ’80.
Dal palco i colori che arrivano, quelli delle luci, sono verde scuro, rosso sangue, viola, blu intenso, un giallo ocra, fondali luminosi squarciati da fari bianchi che ben si adattano e ben supportano quel mix tra elettronica e chitarre elettriche (ma ci sono anche quelle acustiche), architrave della musica della band originaria di Leeds. Su tutto poi il carisma del cantante e fondatore Andrew Eldritch che con la sua voce, dai toni bassi, a volte roca, rende il tutto ancora più oscuro, intenso e per certi versi teatrale (sebbene all’inizio la voce uscisse male dal mixaggio). Sul palco i quattro, tutti con i loro occhiali da sole, si muovono come ombre, senza mai avere il fascio diretto di luce addosso. A completare la scenografia degli specchi che riflettono le immagini dei musicisti.
La musica dei The Sisters Of Mercy che arriva è pulsante, fortemente ritmica, un rock ballabile come si usava in certe discoteche negli ’80. Sono ritmi martellanti, quasi ipnotici, con dei bassi profondissimi e un’incessante e inflessibile drum machine. Ti prende lo stomaco e in alcuni episodi è molto difficile non seguire la ritmica anche con il corpo.
È ovvio che il rimando è quello degli anni ’80, dei primi anni di quel periodo, in quel terreno a cavallo tra il post punk e il nascente utilizzo primario dell’elettronica. Un terreno che fu fertile, su cui germogliarono band seminali per un certo suono e una certa cultura, distante dall’anima luccicante ed edonistica del decennio in cui la musica cambiò radicalmente (e radicali furono anche le scelte discografiche dei Sisters of Mercy).
Quello che colpisce però riascoltando adesso, a quarant’anni di distanza, quei suoni e rivivendo quella cultura non c’è, almeno in questa occasione e per una sera, quel sapore di amarcord, di nostalgia che potrebbe accompagnare un così lungo percorso. Per una sera si respirava piuttosto un fiero ricordo, un forte senso di appartenenza.
Certo, non si è visto in questa occasione “il futuro del rock’n’roll” (parafrasando quanto Jon Landau disse a proposito di Springsteen a inizio carriera) ma sicuramente i SOM fanno un’ottima figura, con un suono ben radicato nel decennio (o forse lustro) di riferimento ma spogliato da forti sovrastrutture di malinconia. Il gruppo, con tante vicissitudini, cambi di formazione, litigi, scissioni e una storia travagliata, riesce (forse anche per questo ricambio interno) a proporsi come una band che arriva sì dal passato ma ha una sua collocazione e ragion d’essere ancor oggi, con un’evoluzione sonora che guarda al presente a cui però arriva con un lungo percorso, che non nasconde ma piuttosto elabora.
Nel breve concerto. forse poco empatico: una quarantina di minuti tirati, senza pause e un solo “buonasera” – in italiano – per il primo set, a cui hanno fatto seguito due doppi bis. Durante lo show però non si è persa la cognizione del tempo, si è vissuto un qui ed ora per certi versi sorprendente.
SCORE: 7,50
Recensione di Luca Trambusti per musicadalpalco.com (Clicca per l’intero articolo)
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