NEGRAMARO: Live report 27 giugno 2018 – Stadio San Siro.
“Parlami di quando mi hai visto per la prima volta”. Che strano modo di iniziare mi sono detta, seguito dal “Ci vuole il giusto distacco, quando si scrive di un concerto, un libro, un disco”.
Un monito che se è vero che la prima richiesta è facilmente soddisfabile, la seconda molto meno. Perché se il lavoro dell’artista è difficile per certi versi, per altri anche quello di chi si ritrova con una cartella da completare con parole e scenari palpabili che descrivano a pieno l’intento e l’esecuzione dell’artista, non è da meno. Ci avete mai pensato?. Io tutta notte. Mi sono detta al diavolo il “giusto distacco”, il dovuto cinismo che ormai pervade sulle questioni più grandi anche di noi esseri umani, ma anche su situazioni nettamente più aleatorie.
Una premessa dovuta a me, ma anche a te che stai leggendo. Così ce lo diciamo apertamente e ognuno è libero di procedere come meglio crede. Arrivare a San Siro presto, significa vedere file di persone davanti ai prefabbricati, numerate sul dorso della mano quasi a sancire un ordine di entrata, per nulla casuale. Ci sono occhiaie, ci sono braccia e ci sono vite che si snocciolano tra i racconti della prima data a Legnano. Cinquantamila persone, un numero da far girare la testa, anche a uno stadio. San Siro è imponente nella sua struttura, non ci avevo mai pensato a quanto tu possa sentirti piccola di fronte a un edificio così mastodontico. Poi parte la traccia 1, casuale della mia playlist su Spotify e mi ritrovo a cantare come un automa “un istante una vita in scatola, come sempre una foto parlerà”.
Così parte questo lungo flash back emotivo. Da una Punto, distrutta anni dopo in un incidente, di un’amica, persa da tempo, e di un viaggio verso Cortemaggiore quando ancora il Fillmore praticava la seducente arte di mettere in scena concerti dando spazio e modo anche ad artisti emergenti di farsi scoprire. L’impaccio, ecco ricordo l’impaccio nel sentirsi osservati a poca distanza, come solo una bella canzone riesce a fare. Lo stesso impaccio che ho provato ieri sera a San Siro, malgrado fosse già il terzo seguito a seguito (mi perdonerete il giro di parole) della band salentina. Un impaccio dovuto alla cognizione dei dieci anni trascorsi dal primo San Siro, che fa girare la testa il percorso che Giuliano, Lele, Ermanno, Andro, Danilo, Pupillo hanno costruito, chilometro dopo chilometro. Dieci anni, ed ho qualche sogno lasciato nel cassetto e qualcuno ancora da scrivere sull’agenda. Dieci anni. Mi sono chiesta come si costruisce una carriera partendo dal Salento e arrivando in tutto lo stivale?. Con coerenza. Credo fermamente che i Negramaro siano la prima band indipendente del panorama italiano, vuoi per l’etichetta discografica, vuoi per esser partiti da una saletta prove, vuoi per la coerenza e ricerca spasmodica del suono, vuoi per l’eleganza di toccare piano argomenti delicati senza farsi portatori di facile qualunquismo. Vuoi per attitudine al lavoro, vuoi per l’umiltà con cui ancora oggi, dopo platini diamanti, sold out, tournee, affrontano le cinquantamila persone presenti.
Il rispetto, il rispetto dell’emotività questa strana cosa per cui si entra in punta di piedi nell’animo e nella vita della gente, è una cosa che a pensarci fa quasi mancar l’aria. Perché si minimizza sempre cercando l’errore o la sbavatura, di un concerto non andato proprio come dovrebbe o in un disco che ha disatteso le aspettative, ma sempre poco si parla del rispetto che un artista dovrebbe avere con l’emotività di chi lo ascolta, ed in primis con la sua. Ecco i Negramaro, hanno abituato talmente tanto a questa forma di educazione culturale che ce ne siamo un po’ tutti dimenticati, dandola per scontato. I visual in 3D proposti, il palco dinamico che permette ogni volta di stare in mezzo alle persone, le immagini, hanno avuto la grazia di non sovrastare l’emotività. La scaletta per questo #Negramaroneglistadi ne è ulteriore la riprova “Mentre tutto scorre”, “Solo tre minuti”, “Solo per te”,”Estate”, ma ancora, “Via le mani dagli occhi”, “Attenta”, “L’amore qui non basta”, “La prima volta”. Sono entrate, prima che in classifica, nel cuore della gente.
Ci sono cicatrici, che han trovato sollievo con un loro brano, gioie e attimi che per spiegare hai usato una loro frase, baci nascosti che han trovato spiegazione attraverso una canzone, quell’ amore segreto che hai paura di confessare anche al tuo migliore amico, ci sono dediche con il telefonino, citazioni, karaoke improvvisati in macchina alle 4 della mattina quando parti per il mare ma anche quando ritorni con la malinconia che non per forza deve alienare il cuore. C’è la malinconia di un “E se” a cui non trovi risposta, c’è l’adolescenza ma anche l’età adulta. Ci sono vite e sì vorrei non cadere nel facile romanticismo, ma il cinismo lo mettiamo nell’armadio, l’avevo detto?. Ho visto madri con i figli, ragazzi, ho visto, anzi ri-visto, persone che erano lì con me la prima volta al primo San Siro, ho intravisto chi mi accompagnò al Fillmore mille mila anni or sono. Ho pensato che se davvero la vita è ciclica per ognuno di noi, è davvero bello pensare che domani è un nuovo inizio per ognuno dei cinquantamila presenti, che con gli occhi stropicciati ricorderanno Giuliano sospeso a 15 metri per cantare Senza Fiato, con rispetto appunto, che in macchina metteranno il primo disco acquistato dei Negramaro e magari chiameranno quel loro amico con cui sono andati la prima volta e di cui hanno perso le tracce nella frenesia della realtà, che forse sorrideranno ascoltando un brano in metropolitana e lasceranno il cinismo un po’ più in fondo al cassetto, e faranno sedere un anziano con il suo giornale sotto il braccio, che magari canteranno in ascensore proprio quei brani non inseriti nelle due ore e passa di spettacolo, ma di cui ne hanno sentito la mancanza proprio lì, nello stomaco.
Che se ne fregheranno dei titoli sensazionalistici e andranno al sodo delle cose. Che magari daranno il giusto nome alle cose, impareranno a fidarsi e dare risposte a tutti questi “E se” che ci vengono imposti con una solo locuzione “E se fossimo tutti meno cinici?”.
PHOTO CREDIT: Elena di Vincenzo