Video Intervista – MOTTA: l’attenzione alla quotidianità

Video Intervista – MOTTA: l’attenzione alla quotidianità

“Semplice” è il terzo album di Motta. Il nuovo disco esce a distanza di tre anni da  “Vivere o Morire”.

Anticipato dall’uscita del  primo contenuto  E poi finisco per amarti, il nuovo disco racconta un nuovo percorso di crescita sia personale sia artistico di un artista che cerca di far pace con le proprie contraddizioni attraverso un processo di semplificazione e di ritorno alle cose semplici

IL RACCONTO DEL DISCO

“Semplice”, come semplice è la vita nella sua essenza.
Motta riparte da qui: dall’attenzione nei confronti delle piccole cose, dall’importanza di ogni attimo vissuto, dalla quotidianità in quanto dimensione che sfugge, ma sempre presente e fondamentale per quel che sarà. Il titolo, quell’unica parola che nell’immagine di copertina si staglia nero su grigio come un assioma imprescindibile, esprime il punto di approdo cui il cantautore toscano è giunto con questo suo terzo album dopo la gavetta con i Criminal Jokers e altri due dischi che lo hanno trasformato in una delle voci più convincenti e apprezzate del cantautorato italiano: “Vivere o morire”, del 2018, e “La fine dei vent’anni”, Targa Tenco per la migliore opera prima nel 2016. Ora siamo a un ulteriore capitolo di quella che potrebbe definirsi una trilogia, ma è un capitolo che si delinea non solo come evoluzione e superamento di ciò che c’è stato prima, ma anche e in primis come sintesi:
Mi sono reso conto che il processo di scrittura di “Vivere o morire” era stato fin troppo lucido», dice Motta, classe 1986. «Avvertivo la pressione della seconda prova dopo che la prima mi aveva dato tante soddisfazioni, non volevo ripetermi, ma questo mi ha in parte costretto ad allontanarmi da una spontaneità che questa volta ho voluto recuperare. Non potevo, però, ripresentarmi come lo stesso di “La fine dei vent’anni”, il tempo e l’esperienza mi hanno cambiato. Così mi sono fatto una promessa: ogni volta che ti viene l’ispirazione metti a frutto ciò che hai acquisito in questi anni su e giù dai palchi, ma ricordati sempre il motivo per cui hai iniziato a fare questo mestiere, il bisogno di fare musica innanzitutto per te stesso». 

È con quest’attitudine che Francesco Motta si è approcciato a un disco che sin dalla traccia di apertura palesa la sua urgenza di crescere sia come persona, sia come artista, semplicemente accettandosi e riappacificandosi con le proprie contraddizioni. «A me che ormai non me ne frega quasi niente», canta Motta in “A te”, e non è indifferenza, è la conquista di un distacco da un mondo esterno da cui troppo spesso si rischia di lasciarsi condizionare e che si traduce in una raccomandazione a se stesso. «E come il mare alla fine fai come ti va». «“A te” è un po’ il manifesto d’intenti del disco», spiega lui.

Ho lavorato a queste nuove canzoni senza sentirmi costretto a rispettare una determinata struttura, eliminando il superfluo, conservando le imperfezioni che per me non sono mai errori, ma dettagli che impreziosiscono e rendono unico ciò che fai. E anche togliendo le pacche sulle spalle ricevute negli ultimi anni per non cedere alla presunzione».

Per questo, a differenza che nei precedenti dischi, il suo volto non compare in copertina: siamo a una sintesi che è in sé una nuova fase in cui l’autore compie un passo indietro per lasciare che a parlare siano le canzoni, parole e musica che cogliendo stati d’animo, emozioni, immagini fugaci, pensieri fluttuanti, più che raccontare una storia tratteggiano un’interiorità che dialoga con se stessa e riflette sulle proprie incongruenze per accoglierle in un abbraccio.

In tal senso “Semplice” è la narrazione di un percorso di crescita. Ecco, allora, Motta che in “Via della luce” parte da un gioco di parole per dirsi che è meglio stare «via da quelli che non ci fanno sbagliare, da quello che non riesco a cantare, via dalla musica, dalle parole, da questo malato bisogno di attenzione, da questa finta guerra che faccio ogni volta, per poter scrivere una canzone». Ma eccolo anche riflettere sui rapporti sentimentali nel primo singolo estratto dall’album, “E poi finisco per amarti”, brano sull’amore come avventura che richiede comprensione reciproca delle proprie fragilità, poiché, afferma Motta:

siamo esseri umani e in quanto tali sbagliamo, non ci capiamo perché è normale non capirsi quando si cambia». E così ogni canzone diventa un tassello di un processo di maturazione che in fondo coincide con il diventare adulti senza tradire se stessi e coltivando uno sguardo in grado di cogliere lo scorrere della vita senza sovrastrutture: «E alla fine non ho più paura di stare a guardare qualcosa di normale» (“Qualcosa di normale”).

Prodotto dallo stesso Motta nel suo studio romano con la complicità di Taketo Gohara, l’album rispecchia la volontà di avvicinare sound e arrangiamenti alla dimensione live intesa come fondante: «I miei precedenti dischi erano troppo lontani da quello che propongo dal vivo», osserva il cantautore pisano, qui affiancato, tra gli altri, dai fidati compagni di tour Giorgio Maria Condemi (chitarra), Matteo Scannicchio (tastiere), Cesare Petulicchio (batteria, già nei Bud Spencer Blues Explosion), oltre che dal percussionista brasiliano Mauro Refosco, già negli Atoms for Peace di Thom Yorke, oltre che al lavoro con David Byrne e Red Hot Chili Peppers, e il bassista Bobby Wooten, tra i protagonisti dell’acclamato tour “American Utopia” dello stesso Byrne.

Questi ultimi hanno lavorato da remoto da New York, la pandemia non permetteva alternative, quella pandemia che in “Semplice” non compare nonostante le canzoni che lo compongono siano state rifinite quando il coronavirus era già tra noi.

Tranne l’ultima traccia i pezzi già c’erano, dopo il primo lockdown li ho ripresi in mano fino a portarli alla forma definitiva. Il periodo storico che stiamo vivendo non è presente con i suoi drammi, ma il messaggio del disco vi aderisce in pieno: mai come ora il valore della semplicità e del guardarsi dentro per trovare nuove modalità esistenziali ci è stato così evidente, riflettere su questo mi ha aiutato a scovare le parole giuste per potermi immaginare un futuro possibile».

Un atteggiamento favorito anche dalla scelta di trasferirsi a vivere in campagna fuori Roma, in mezzo alla natura, tra cavalli e papere.

Fino a non molto tempo fa ho vissuto la mia vita come un sistema binario di scelte: bianco o nero, tutto o niente, vivere o morire. Era come se m’imponessi costantemente di scegliere da che parte stare. Adesso quella tensione c’è ancora, in me, ma l’ho finalmente accettata assieme a tutte le mie contraddizioni».

Va detto che musicalmente l’album è tutt’altro che semplice, il suono è stratificato, negli arrangiamenti ricoprono un ruolo centrale gli archi curati da Carmine Iuvone. Violini, viola e violoncello non si limitano ad aprire melodie, ma si muovono anche vorticosi in un disco intenso, miscela di pop cantautorale e rock non priva di chitarre acide e punte di psichedelia, in cui echi di ascolti di band e artisti internazionali quali Radiohead, Lou Reed e The Cure s’intrecciano con la lezione dei modelli nostrani di Motta, da Tenco («per le liriche di “L’estate d’autunno” ho preso inizialmente spunto dalla sua “Una brava ragazza”») a De Gregori, chiara influenza in “Qualcosa di normale”.

È stato lui, quando gli ho fatto ascoltare la canzone, a consigliarmi di cantarla con una donna, e lì ho pensato subito a mia sorella Alice»

confida Motta, che con “Semplice”, con il suo inconfondibile e penetrante timbro vocale, ci regala ritornelli da intonare, ma anche momenti e code strumentali che qua e là, come nei suoi concerti, trasfigurano la forma canzone scolpendo potenti mantra ipnotici.

Da questo punto di vista «l’esperienza del tour con Les Filles de Illighadad è stata determinante» – parole sue –, ed esemplare è la traccia di chiusura “Quando guardiamo una rosa”, scritta con Dario Brunori (Brunori Sas) quando l’album era già quasi pronto.

Ma sentivo che mancava qualcosa: il racconto di quel presente che da oltre di un anno ci sta mettendo in difficoltà, però non osservato dall’alto, bensì visto dalla mia prospettiva personale, per come l’ho vissuto io».

Il brano parla di amore, di inquietudini, di nuove consapevolezze. Anche col cuore che balla, la lingua per terra, ci provo a cavarmela», canta Motta prima di tuffarsi con i suoi musicisti in un lungo finale strumentale, uno sfogo elettronico-percussivo che come in un rituale catartico celebra la cosa più semplice, ma più difficile da catturare che ci sia: la libertà di essere ciò che si è.

LA VIDEOINTERVISTA 

ASCOLTA SEMPLICE 

IL TOUR 

Motta tornerà questa estate dal vivo con un tour estivo a supporto del nuovo lavoro discografico. I primi due concerti, annunciati oggi, faranno parte del tour estivo e saranno il 21 luglio a MILANO al CARROPONTE e il 10 settembre a ROMA all’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA. Organizzato da Locusta Booking, i biglietti per i concerti sono disponibili in prevendita da oggi su www.mottasonoio.com. Motta è un artista live e la sua crescita umana e professionale è avvenuta sopra i palchi, per cui questo momento di ripartenza, questo nuovo tour, assume per l’artista una connotazione ancora più forte e viscerale

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